Il passo delle oche.
A chi il potere? A noi!, rispondono insieme i seguaci di Gianfranco Fini, ex e post camerati, oppure mai stati camerati, nostalgici o futuristi, modernisti neo-sarkoziani o sulfurei cripto-evoliani, sociali o movimentisti, giovani nazionali affiancati da atletiche bellezze mussoliniane. A noi!, dunque, nel senso che una volta smarrito lungo la strada tutto il resto, dai valori sansepolcristi all’ ideologia corporativa, e dal momento che anche la nostalgia non è più quella di una volta, tanto vale darsi da fare ad afferrare, se non il vero potere, almeno una bella fetta di successo. Così descrive la variopinta tribù di Alleanza nazionale Alessandro Giuli; decisamente al riparo data l’ età - trentadue anni - da qualsiasi sospetto di vendetta personale tardo-fascista, firma del Foglio ma sufficientemente introdotto nella cultura di destra da poter raccontare quel che si prova, oggi, militando laggiù. Il passo delle oche, oltre che un titolo ironico, è una rappresentazione icastica del modo di procedere della tribù «aennina»: un’ andatura senza altro obiettivo che la «legittima aspirazione di conquistare il potere». Legittima? Certo, se si ripensa al tempo delle catacombe, gli anni ‘ 50, ‘ 60, ‘ 70, quando dichiararsi missini significava non solo rischiare le botte, ma anche l’ esclusione vita natural durante da qualsiasi posto in consigli d’ amministrazione, vertici di Stato, redazioni, case editrici non di nicchia, insomma da qualsiasi luogo decentemente lottizzabile dai partiti dell’ arco costituzionale. Poi, come si sa, le cose cambiarono dopo Tangentopoli: visto che tutti gli altri o quasi si rivelavano corrotti, persino i «fascisti» si potevano rivalutare, se non altro perché si supponeva che, costretti nel loro ghetto, non avessero trovato il modo di contaminarsi. Così, ricorda Giuli, ecco i «neri» uscire dalle catacombe e farsi avanti con molte pretese di moralità, ecco i giovani di destra unirsi ai loro coetanei pre-girotondini e gettare le monetine addosso a Craxi, fuori dall’ hotel Raphael, autoproclamandosi portatori di uno stile, di un’ austerità morale degna degli azionisti, o dei berlingueriani d’ un tempo. Se non che - constata Giuli - una volta messi alla prova i nostri eroi hanno «sbracato». Si è visto cioè che, sotto il doppiopetto che aveva sostituito a suo tempo la camicia nera, non c’ era niente. O meglio, niente di più o di meno di quello che avrebbe potuto animare un bravo giovane berlusconiano, modellato sui valori e le aspettative di carriera di Publitalia. Per dirla in maniera ideologica - e sempre con Giuli - si è visto che l’ abiura del fascismo, sanzionata nel famoso congresso di Fiuggi, era più che altro un gesto formale, dal momento che in realtà il gruppo dirigente «aennino» non era mai stato realmente fascista. E, per dire la verità, non lo era stato più nemmeno quello modellato in maniera abilmente compromissoria da Giorgio Almirante. E dunque: l’ altro ieri neofascisti per caso, ieri missini per necessità, oggi post-fascisti per convinzione liberatoria e domani antifascisti per logica di causa ed effetto, i nostri eroi procederebbero «dal quasi nulla al nulla». Una bella parabola, non c’ è che dire, culminata nella famosa ripulsa di Gianfranco Fini, nel sacrario ebraico di Yad Vashem, con la kippah in testa e la famosa frase sul fascismo come «male assoluto» (giudizio in realtà attribuito più limitatamente alle leggi razziali del 1938). Non sarebbe giusto, naturalmente, liquidare tutto ciò in una serie di sketch o caricature, e tuttavia questo procedere dei «post-fascisti per caso» verso l’ agognato approdo finale del Partito popolare europeo sembra fatto apposta per far sbizzarrire i professionisti della satira. L’ occasione di vedere un ex ragazzo di Salò in grisaglia sarkoziana o post-democristiana, bisogna ammetterlo, è ghiotta. Di per sé assicura una miniera inesauribile di personaggi su cui acuminare le penne. Si comincia dal mitico Giorgio Almirante degli anni di ferro, descritto da Giuli come un «abilissimo impasto politico di realismo deideologizzato», capace, «nella sua ambiguità», di raffigurare «con cinquant’ anni di anticipo il decorso mentale e materiale dei camerati di Salò». Si continua naturalmente con il suo delfino pienamente realizzato, quel Gianfranco Fini tutto dedito a un «avventurismo nomade finalizzato alla ricerca del successo», ma in fin dei conti capace soltanto di tenere fermo il suo «piccolo timone lì dove l’ aveva posizionato Berlusconi». Poi, ci sono i comprimari. Ecco l’ ex segretario del Fronte della Gioventù, ed ex ministro, Gianni Alemanno, cresciuto all’ ombra del suocero Pino Rauti, che «nasce culturalmente incendiario e matura tessitore», ricalcando nei confronti di Fini lo stesso schema adottato da quest’ ultimo verso Berlusconi: un po’ di contestazione, una moderata fronda e l’ immancabile allineamento finale. Liquidato Ignazio La Russa (come «pittoresco scacciapensieri»), ecco Francesco Storace, che «esemplifica il rapporto intimo e contorto fra la presunta diversità dei post-fascisti rispetto alla tradizionale nomenklatura italiana e la loro trionfale caduta nel regno della banalità partitocratica che livella verso il basso». E che dire della sua avversaria, Alessandra Mussolini, nota come soubrette fino al 1992, in seguito capace di imporsi «prima come una persona che di cognome fa Mussolini e poi come donna capace di prendersi a calci in televisione con la ministra comunista Katia Belillo?». Di fronte a lei, persino il «marchio pubblicitario Daniela Santanchè», nonostante il glamour che le conferiscono le frequentazioni con Flavio Briatore, è soltanto «un fenomeno patinato godibilissimo». Quanto all’ altra donna in evidenza, Renata Polverini, «non c’ entra niente con An ma per volontà di Fini ne guida il sindacato di riferimento, l’ Ugl». Sul piano culturale, spiccano «l’ esasperazione giudaico-evangelica statunitense» (di Alfredo Mantovano) e «il neodestrismo abramitico e islamizzante» (di Franco Cardini), oltre naturalmente agli irregolari «stazzonati come Marcello Veneziani che ripiegano nell’ intimismo vittimista». Senza dimenticarsi di Pietrangelo Buttafuoco, teorico di una «televisione di destra» da trapiantare nel corpaccione della Rai. E poi c’ è il Secolo d’ Italia in blocco, voce un tempo maledetta del partito, che oggi insegue il vezzo giornalistico di tutte le possibili e immaginabili, pittoresche attribuzioni alla destra, da Gobetti a Lola Falana, passando per Moana Pozzi e il bestsellerista Federico Moccia, sempre all’ insegna dello slogan «strano ma nero». Ma l’ icona della tribù resta pur sempre quella del leader, Gianfranco Fini, l’ ex ragazzo «contro» che aveva il coraggio di ammirare i Berretti Verdi di John Wayne nelle sale cinematografiche della rossa Bologna, in seguito abbandonatosi alla malinconia, anzi alla depressione, nel Transatlantico di Montecitorio, durante «l’ estate lunghissima del 2006», «con gli occhi deprivati di luce». Un fumatore dedito sempre più di frequente alle «pause sigaretta», però con il coraggio di confessare: «In fondo è bello stare all’ opposizione perché non si fa praticamente nulla», e poi, in un soprassalto d’ orgoglio ferito: «Ma insomma, questo Cavaliere non si capisce se davvero vuole investire su di me oppure mi prende in giro». Il libro di Alessandro Giuli, «Il passo delle oche», editore Einaudi, pagine 176, 14,50
Thursday, October 04, 2007
Subscribe to:
Post Comments (Atom)
No comments:
Post a Comment