Monday, August 13, 2007

Pazzi di democrazia.
Intervista a Massimo Fini

Se c’è una convinzione tutta occidentale che domina i nostri tempi è quella che il raggiungimento della democrazia sia l’ultima tappa di un lunghissimo processo politico che parte dall’origine dell’uomo fino ai giorni nostri. La democrazia per l’occidente, per noi, è il Bene assoluto e come tale va esportato in tutto il mondo. Massimo Fini, giornalista e pensatore, ha scritto su questo tema un libro, “Sudditi” (Marsilio, 2004). Partendo dal presupposto sopra citato e costatando nel pensiero di Francis Fukuyama, ma non solo, il sintomo filosofico di tale credenza (“La fine della storia e l’ultimo uomo”, Rizzoli, 1996) Fini demolisce questa convinzione, dimostrando come quella che noi chiamiamo democrazia in realtà non sia altro che un sistema di oligarchie politiche guidate da interessi economici e noi, più che liberi elettori, siamo sudditi di tale sistema, sistema che ci vede come i suoi più pazzi sostenitori. Parlare con Fini di democrazia significa anche parlare di capitalismo, identità, culture a confronto, e di tutti i problemi collegati a questi concetti. “Sudditi”, grazie all’apporto del regista Edoardo Fiorillo, è diventato anche uno spettacolo teatrale, “Cyrano se vi pare”, con protagonista lo stesso Fini e una compagnia di attori, che è in questi mesi in giro per l’Italia.

Sull’onda di Francis Fukuyama, le potenze occidentali pensano che la storia dell’uomo finirà quando l’intero pianeta sarà stabilmente e totalmente democratico. E’ realizzabile, e al limite auspicabile, questa possibilità? Se sì, a che prezzo?

Il tentativo occidentale, e soprattutto americano, di esportare il proprio sistema politico-economico è senz’altro realizzabile e con le buone o le cattive avverrà: prima in Afghanistan, ora in Iraq, poi sarà la volta dell’Iran, e via seguendo. Gli stati occidentali hanno le possibilità per farlo, ma un fatto di questo genere non può che fare crescere in modo esponenziale il terrorismo, anche perché di fronte a potenze così armate, come lo sono quelle occidentali che aggrediscono e pretendono di imporre senza mezzi termini la loro cultura ad un’altra, l’unica risposta può essere il terrorismo. In più, non appena tutto il mondo sarà stato democraticizzato e sottoposto al nostro sistema economico, quando cioè la predizione di Fukuyama si sarà avverata, il sistema imploderà su sé stesso generando un’immane catastrofe. Non è una novità, è sempre successo con i sistemi totalizzanti, si pensi all’Unione Sovietica, all’Impero Romano. L’Impero Romano aveva appena finito di conquistare tutto il mondo allora conosciuto e si sgretolò in brevissimo tempo. In realtà quello che si dovrebbe fare, ma che non si farà, è proprio il processo contrario, cioè di ritornare a dimensioni più limitate.
Questo processo di globalizzazione della democrazia e del capitalismo, oltre a fomentare il terrorismo, favorisce anche le immigrazioni di massa. Quei paesi che noi chiamiamo terzomondisti un tempo non erano tali, sono stati destrutturati sia economicamente che socialmente dall’invasione occidentale, che li ha obbligati ad abbandonare le loro economie di sussistenza (dove il livello di vita non era come il nostro ma la gente non moriva di fame) a favore delle esportazioni e del mercato globale, che però non sono sufficienti a colmare il deficit alimentare che si viene a creare.

Del resto l’Africa fino al 1960 era alimentarmene autosufficiente, potrà sembrare strano ma è così.

Le emigrazioni esistevano anche nel secolo scorso, due secoli fa, ma non c’erano neri del Mali o del Senegal che venivano spontaneamente in Europa. Andavamo a prenderli noi per schiavizzarli. Senza contare che le emigrazioni odierne, inserite nel sistema globalizzato e gestite come oggi vediamo dall’occidente, innescano un’altra iniqua ferocità: il capitale può muoversi dove gli pare per cercare la remunerazione più alta, l’uomo no, viene bloccato alle frontiere. Quindi la nostra è una globalizzazione incoerente, ed è incoerente anche per un altro motivo: fermo restando che la diffusione globale del nostro modello politico-economico vuole conservare l’identità che ad esso appartiene, cioè la nostra di uomini occidentali, questa conservazione passa anche attraverso il rispetto dell’identità altrui e non attraverso la sopraffazione delle armi e del potere. Se non si vuole l’immigrazione, se si vuole conservare questa cultura, non bisogna andare ad esportare il nostro modello di vita, le nostre fabbriche, il nostro “sviluppo” altrove, magari imponendoli e pagando la gente di quei luoghi in moneta povera e inutile. Così l’immigrazione è inevitabile e il terrorismo trova consensi. In ambito politico sono pochi i partiti che segnalano al popolo queste profonde incoerenze: penso in Francia alla destra radicale di Le Pen che dice no all’immigrazione ma contemporaneamente dice no al fatto che si vadano a mettere delle fabbriche puzzolenti in Tunisia o in Marocco. Altro discorso quello dei Radicali italiani, con cui mi trovo completamente in contrasto ma di cui riconosco la coerenza: per loro globalizzazione è globalizzazione di tutto, uomini e capitali.

Tanto più che si può essere dubbiosi sull’assoluta efficienza di un sistema politico come quello democratico che ha meno di due secoli alle spalle.

Infatti. La democrazia s’è autoinvestita di una sorta di universalismo eterno che è assolutamente ridicolo alla luce della storia. Ci sono stati sistemi che sono durati mille anni e passa e che sembravano indistruttibili, ma poi sono caduti. Questa sarà anche la sorte della democrazia. Sembra di risentire le follie di Hitler del Reich per i mille anni. Purtroppo succede sempre la stessa cosa: una volta sconfitti i totalitarismi del novecento, cioè nazismo e comunismo, la democrazia si comporta esattamente come loro. E siamo da capo, ma con qualcosa di peggio perchè il nazismo si presentava con la sua faccia esplicitamente feroce, senza ambiguità, mentre la democrazia è estremamente subdola. Ed è la cosa che a me personalmente dà più fastidio. Quando ero ragazzo pensavo la stessa cosa della Santa Inquisizione, che torturava, metteva cunei tra le dita dei piedi, faceva ingoiare qualsivoglia cosa e aveva la presunzione di fare tutto ciò per il bene dell’inquisito. E’ intollerabile. Ma questa è la democrazia oggi, ed è una situazione drammatica perché, come sempre, l’idea iniziale è il contrario: si è partiti all’insegna della tolleranza e del rispetto delle pluralità, si è arrivati oggi a considerare tutto ciò che non è democratico come Male. Una cellula molto vitale, se diviene troppo vitale, si trasforma facilmente in tumore. Così anche la cosa più bella e giusta, portata all’estremizzazione, diventa un errore: il nostro errore è di essere pazzi di democrazia. Non sappiamo più accettare l’altro da noi, che è la forma più totalitaria dei totalitarismi. Al massimo accettiamo l’altro nella misura in cui si omologa a noi. Abbiamo dimenticato due colonne portanti della cultura illuminista da cui deriviamo e da cui dovrebbe derivare la nostra idea di democrazia: la prima è “la ragione dubita di tutto anche di se stessa”; la seconda, di Voltaire, è “non sono d’accordo con ciò che tu dici ma lo difenderò fino all’ultimo”.

I nostri ultimi rapporti con l’Islam in questo senso sono sintomatici.

Nel caso dell’Islam, al di là del fatto che è giusto difendersi da una cultura aggressiva, ci va bene solo l’Islam moderato e ci arroghiamo il diritto di intervenire su quello più estremista. Non sto dicendo che non sia giusto che la donna abbia pari diritti dell’uomo, ma che questa svolta, se necessaria per gli uomini e le donne interni a quella cultura, deve essere promossa da loro, non da noi che veniamo da chissà dove e che così facendo distruggiamo tutto. Anche per questo sono convinto che Safiya non andava salvata. Ogni nostro intervento esterno, da “Arrivano i nostri!”, su una cultura differente magari salva una vita ma peggiora complessivamente la situazione. Una ventina di anni fa in Sierra Leone fu trovata una bambina dell’apparente età di dieci o undici anni che viveva con le scimmie, fu presa, portata in un ospedale sovietico e rieducata. E’ successo che questa bambina è diventata come handicappata. Scrissi un pezzo su “Il giorno” che chiudeva così: “meglio bimba fra le scimmia che scimmia fra gli uomini”. Quella bambina andava rispettata per ciò che la sua straordinaria e stranissima storia l’aveva resa. Inserirsi così violentemente su una cosa di questo genere, anche con le migliori intenzioni, aveva portato un danno maggiore. Quella bambina avrebbe vissuto a suo modo certamente più felice tra le scimmie che handicappata in un ospedale.

Questa “euforia interventista” sulle culture altrui ha avuto qualche riscontro anche in Italia. Alcuni mesi fa il dott. Omar Abdulkadir dell’ospedale Carreggi di Firenze ricevette parecchie critiche per aver trovato un metodo alternativo a quello dell’infibulazione che fosse meno rischioso per la donna …

Innanzitutto bisognerebbe chiedersi perché le donne che vengono qui in Italia continuano a sottostare all’infibulazione. L’infibulazione non è una pratica islamica, ma africana, e nasce da una cosmogonia di quei luoghi che noi non conosciamo affatto e che per certi aspetti intuisce quello che Freud scoprirà nel novecento. In questa cosmogonia si ritiene che uomo e donna nascano con un sesso diverso ma che siano dal punto di vista psicologico tanto maschili quanto femminili. Bisogna che l’individuo abbia, anche psicologicamente, un’identità precisa, allora viene messa in atto una pratica che individua nel prepuzio il principio femminile del maschio, e da qui la circoncisione, e nel clitoride il principio maschile della femmina, e da qui l’infibulazione. Si tenga presente che, come ha spiegato da Vespa alcuni mesi fa la sessuologa Alessandra Graziotin, l’infibulazione non ha alcuna conseguenza né sul piacere né sulla riproduzione, come la circoncisione. Cancellare questa pratica vorrebbe dire annientare una parte importante della loro identità. Quindi bisogna sapere cosa si sta facendo quando si va lì a dettare la morale come fa una delle tante Emma Bonino di turno.

Ma i contrari all’infibulazione dicono che questa pratica porta alla morte…

Il fatto che muoiano d’infezione non è un aspetto culturale, ma solo che le operazioni vengono fatte male. Per quanto riguarda il metodo di questo medico eritreo penso sia un modo pragmatico di affrontare il problema, molto intelligente visto che l’infibulazione qui viene praticata clandestinamente, con tutti i guai che la cosa comporta. Io però sono anche convito di un’altra cosa: se tu vieni in un paese, come l’Italia, dove atti di mutilazione del proprio corpo non sono possibili, tu rispetti le nostre leggi e le nostre usanze come noi venendo da te dovremmo rispettare le tue. Effettivamente, vista dall’esterno, non si capisce bene che senso abbia continuare a praticare l’infibulazione con rischi così alti per la vita ma, ripeto, per certe etnie africane un senso questa cosa ce l’ha. Per capire le origini del fenomeno consiglio di leggere il “Dio d’acqua” (di Marcel Griaule, Garzanti, 1972, ndr), che parla della cosmogonia del popolo Dogon. E’ una cosmogonia di una raffinatezza straordinaria, altro che quella cristiana. Tutte le culture africane, nonostante l’oralità che potrebbe fare pensare il contrario, sono straordinarie, raffinatissime. E noi in questa raffinatezza ci inseriamo con la delicatezza del bulldozer. Basta pensare che definiamo questi popoli, con un atteggiamento di subdolo disprezzo, “popoli primitivi”, mentre in tedesco il corrispettivo, più rispettoso, del nostro termine è “popoli della natura”. Bisogna studiare le culture altrui prima di metterci il becco, altrimenti si distruggono e basta, questa cosa è già accaduta troppe volte. Infatti la cultura africana, rispetto alla nostra, è profondamente diversa. Non c’è mai stata in Africa una guerra di religione per la semplice buona ragione che loro non hanno religioni monoteiste, non hanno al limite neanche degli dei, ma spiritualizzano la natura, spiritualizzando la materia laddove noi materializziamo anche l’uomo. E anche se non può sembrare, la storia dell’Africa è una storia di conciliazioni, nonostante ci siano migliaia di etnie. Ricordo di essere stato trentacinque anni fa a Nairobi ad una convenzione sullo svolgersi delle guerre in Africa dove c’erano i maggiori capi di stato del continente. Ne venne fuori che fino ad allora le guerre nella millenaria storia del continente erano state una cosa ridicola, non solo in senso relativo rispetto a quello che abbiamo combinato noi, ma anche in senso assoluto. Solo negli ultimi anni siamo arrivati noi ed è cambiato tutto. Per dirla con un aneddoto: mi ricordo che venne un capo di una piccola tribù, non ricordo quale precisamente, e disse: “Anche da noi c’è stata una guerra, una guerra terrificante, tremenda, una cosa terribile, poi un giorno vicino a un pozzo c’è scappato il morto ed è finito tutto subito”. Solo questo esempio dovrebbe fare capire cos’è realmente la cultura africana e quanto è diversa dalla nostra.

Tornando all’esportazione della democrazia, si nota come questa avvenga inscindibilmente a quella del modello economico capitalista. Perché la democrazia è il sistema politico più adatto al capitalismo?
Funzionano insieme perché la democrazia non essendo affatto democrazia ma un sistema di oligarchie politiche asservite a forti interessi economici dà mano libera alle multinazionali e al capitalismo. Noi siamo solamente una massa di manovra che segue i dettami di questi due mostri che operano in simbiosi. Siamo inglobati in essi così come tutto il resto. Vi è inglobata la religione: alcuni anni fa un improvviso bisogno di spiritualità venne tradotto in azione commerciale e nacque la New Age; vi è inglobata la cultura: trovo assurdo che i quotidiani alleghino settimanalmente dei grandi capolavori della letteratura. “Anna Karenina” non te la possono dare servita su un piatto, ci devi arrivare da solo. Anche la cultura, cioè il nostro modo di essere, il nostro strumento di interpretazione delle cose che ci accadono intorno, è diventata consumo. Noi non siamo elettori, ma consumatori e basta. Che cosa cambia allora se in America vince Bush o Kerry? Nulla. Il sistema continuerà ad occultare la verità delle cose permettendo a questo meccanismo produttivo di andare come e dove vuole, con la legittimazione della grande insegna del Bene della democrazia.

Così destra e sinistra, allora, perdono il loro significato…
Certamente. Soprattutto se aggiungiamo il fatto che liberalismo e marxismo sono figli entrambi della rivoluzione industriale e dell’illuminismo, e che pongono il lavoro come “motore immobile” della loro idea di società. Sono solamente due diverse interpretazioni di un modello sociale che non viene mai negato nei suoi due punti chiave. Questo è il pensiero unico del nostro tempo, non esiste nulla al di fuori di questa medaglia a due facce e queste due facce non possono e non riescono a negare le loro origini nel pensiero e nella storia moderni. Anche i più grandi critici del mondo moderno come Habermas, Marcuse e soprattutto Adorno, tutti figli dell’illuminismo, pur arrivando all’estremo limite della critica alla modernità non si spinsero mai oltre. Così facendo avrebbero negato in un qualche modo loro stessi.

Ma anche come sistema politico nel suo interno, la democrazia presenta parecchie contraddizioni e imperfezioni. Ad esempio la partecipazione dell’elettore è limitata alla scelta di un candidato oligarchicamente imposto che spesso e volentieri è privo di carisma ma non privo di mediocrità.

Il popolo decide solo da chi vuole essere schiacciato. Fassino o Berlusconi non cambia tanto, anche se da par suo Berlusconi è particolarmente criminale.
Quello che è certo è che il candidato da votare non è direttamente scelto dal popolo ma imposto a priori da un’oligarchia politica che chiamiamo partito, controllata e diretta da poteri e interessi economici.
In questo modo viene negato uno dei presupposti fondamentali della democrazia: che, almeno in partenza e almeno nell’unico momento in cui partecipa realmente al processo decisionale ed esercita quel potere che è formalmente suo, il cittadino sia messo su un piede di parità con tutti gli altri. Circa la mediocrità degli uomini di potere, la democrazia nelle sue premesse sconta che i governanti possano essere mediocri proprio perché è un sistema antitetico a quello carismatico, perchè il carisma porta al potere dittatoriale.
La democrazia accetta questo rischio: tutto bene se la democrazia fosse veramente democrazia, ma trattandosi di oligarchie e aristocrazie, se sono all’insegna della mediocrità il tutto non funziona più! È questo il punto: non faccio carico alla democrazia di produrre mediocri, faccio carico a una aristocrazia mascherata di essere mediocre. E le aristocrazie passate, che tali si definivano senza maschere di sorta, avevano spesso e volentieri qualità specifiche: i nobili feudatari erano coloro che sapevano portare le armi e difendevano il popolo, in Cina la conoscenza dei molteplici e diversi caratteri della scrittura era la chiave di appartenenza alla casta dei mandarini. Chi invece appartiene alle oligarchie democratiche non ha qualità specifiche o elementi di distinzione se non quello di fare politica. La mediocrità dei nostri politici non fa altro che schiacciare l’individuo singolo. Il cittadino, che sarebbe l’elemento ideale in un sistema democratico, in quanto singolo e individualista, diventa invece la vittima designata. A questo proposito c’è una frase di Catilina che può essere efficacemente trasportata al giorno d’oggi: “Ora che il governo della Repubblica è caduto nel pieno arbitrio di pochi prepotenti… noi altri tutti, valorosi, valenti, nobili e plebei, non fummo che volgo, senza considerazione senza autorità, schiavi di coloro cui faremmo paura sol che la Repubblica esistesse davvero”. Se a “repubblica” sostituisci “democrazia” hai la stessa cosa: il singolo individuo che il sistema liberale voleva valorizzare, che il sistema della democrazia voleva rappresentare, sente alla fin fine di non contare niente. Abbiamo iniziato una guerra contro l’Iraq e nessuno ci ha chiesto niente. Almeno Mussolini doveva presentarsi a Palazzo Venezia e fare un discorso per dire che s’era dichiarata una guerra, e c’era della gente sotto che, se non poteva contestarlo, almeno poteva ascoltarlo. Siamo arrivati al punto che la guerra, l’evento più tragico e fondante della vita di un popolo, si decide senza chiedere il parere dei cittadini. Siamo al paradosso dei paradossi, e questo è solo l’esempio più eclatante.

In “Sudditi” lei individua sette punti basilari perché un sistema politico venga chiamato democrazia e nota come nessuno di questi sette venga rispettato…

Bastano i primi tre punti a dimostrare quanto sia subdolo l’attuale sistema democratico. Primo: “Il voto deve essere uguale”. In realtà il voto non è uguale, basta andarsi a leggere cosa affermava nei primi del novecento Gaetano Mosca della scuola elitista: “Cento che agiscano sempre di concerto e di intesa gli uni con gli altri trionferanno su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra loro”. Secondo: “Il voto deve essere libero”. Ma il voto non è libero: prima della decisione del singolo elettore c’è quella dell’oligarchia politica che impone un candidato, c’è il maggioritario e, ancora di più, c’è tutta l’opera di convincimento degli organi di informazione che sono totalmente sottomessi ad un partito piuttosto che ad un altro. Con questi presupposti si capisce come il terzo punto, “I governati devono essere in grado di esercitare un controllo sull’attività e sulle decisioni dei governanti”, sia allo stato attuale delle cose una pura fantasia.

Oltre a tutto questo la formula capitalismo più democrazia, eletta da tutti come sommo Bene, non sembra sia in grado di fare stare bene ai propri cittadini…

Parliamo solo per un attimo di statistiche. Nell’Europa del 1650, data che possiamo prendere come inizio della rivoluzione industriale, i suicidi erano il 2.5 per 100 mila abitanti. Nel 1850 si erano già triplicati, il 6.8, verso la fine del ventesimo secolo si sono addirittura decuplicati, andando oltre il 20 per 100 mila abitanti. Aggiungiamo che l’alcolismo di massa ha inizio con la rivoluzione industriale, che le malattie mentali, la depressione, la nevrosi, scarsissimi nel mondo pre-industriale, sono diventate un problema sociale fino alla prima metà del novecento, tanto da generare la psicoanalisi; aggiungiamo che oggi negli Stati Uniti 566 americani su mille fanno uso di psicofarmaci.
Questo perché? Perché con la rivoluzione industriale si è passati da una società nella quale le leggi economiche erano in buona misura sottomesse alle esigenze e agli scopi della comunità umana a un’altra nella quale le leggi cieche dell’economia prendono il sopravvento.
Questo avviene sempre più intensamente, perché il sistema capitalistico ha bisogno di un numero sempre maggiore di consumatori, che siamo noi, in modo da aumentare sempre di più la produzione di beni. In Africa, ad esempio, ci sono campi molto ben coltivati, ma solo a metà. La differenza tra il bianco e il nero è che il nero coltiva il campo quanto basta, il bianco lo coltiva tutto. Questo me lo disse, mi ricordo, quando ero in Sudafrica, un biologo inglese che mi accompagnava e che era lì da tempo. Senza saperlo con quella frase centrò quello che è lo spirito del capitalismo. Non ci si accontenta di ciò che si ha e poi si va a spasso con la propria ragazza invece di lavorare il doppio del necessario. No, bisogna ottimizzare sempre: è la logica nostra dell’occidente, della rivoluzione industriale. E questo che ho detto riguarda solo la parte economica del nostro sistema. Per quanto riguarda la parte politica, cioè la democrazia, è sufficiente sentire il senso di frustrazione che si prova nel vivere schiacciati da un sistema politico che, mentre ti promette di governare perché “ la democrazia è il governo-del-popolo”, schiaccia qualsiasi tuo potere decisionale. Non ho trovato neanche nel più lurido tugurio del Mali la disperazione e la nevrosi che è possibile trovare qui in occidente.

Ma non è finita qui. Ancora in “Sudditi” lei paragona il mondo occidentale ad un treno che va ad ottocento all’ora, senza macchinista. In questo treno uomini di destra e sinistra stanno seduti sulle stesse carrozze. L’unica cosa che cambia è la classe, ma tutti indistintamente andranno un giorno o l’altro a schiantarsi…

Tra i primi a dare l’allarme dello schianto del treno ci furono quelli del Club di Roma di Aurelio Peccei, tutti scienziati di prim’ordine, con un libro-documento dal titolo “I limiti dello sviluppo”, era il 1972. Previdero che saremmo arrivati ad esaurire le fonti di energia disponibili nel giro di qualche decennio, esaurimento che ci avrebbe finalmente costretto a ripensare il nostro modo di vivere e a cambiare strada. Sbagliarono la previsione, ma non la sostanza. Infatti il loro non era un discorso meramente tecnico, ma anche etico, razionale. Si chiedevano se questo modo di vivere ci assicurasse davvero una vita più serena e bella o era solamente un suicidio; notavano come lo sviluppo del nostro modello economico industriale, pur essendo guidato da paesi che si definiscono ancora oggi democratici, avveniva sempre con maggiore intensità ma senza il parere di chi quel modello lo viveva e subiva, cioè noi. Perché il problema di fondo non è solo tecnico. La soluzione non è quella di Rifkin: sostituire l’idrogeno al petrolio rimanderebbe ad altro tempo il problema. La soluzione deve essere etica prima che tecnologica.

E’ possibile fare una previsione dello schianto del treno?

Non è possibile prevederlo logicamente, ma si può dire che questo treno deve aumentare sempre la velocità per propria dinamica interna. Ho già fatto l’esempio dell’Unione Sovietica che è crollata velocemente, in quattro o cinque anni, e a quel crollo prima di allora nessuno avrebbe creduto. Non siamo in grado di controllare il futuro, che potrebbe intraprendere accelerazioni inaspettate. Certamente quando il sistema avrà preso tutto il globo, non potendo espandersi più da nessuna parte, imploderà. Ci sono già segni finanziari, economici in questo senso; ci sono soprattutto segni di profondo disagio nel popolo occidentale.

Provocatoriamente in “Sudditi” lei suggerisce che la soluzione migliore è accelerare la corsa del treno attraverso determinate scelte elettorali e culturali, quali ad esempio votare quelle fazioni politiche che sono maggiormente favorevoli al binomio democrazia-capitalismo. Al di là di questo, esistono dei movimenti alternativi a tutto questo?

Una soluzione potrebbe essere quella di un ritorno alle piccole patrie. C’è un movimento naturalmente centrifugo che mira al recupero di identità fortemente connotate: il Qebeq, o Terranova, o la riscoperta dell’orgoglio pellerossa; qui in Europa abbiamo assistito alle divisioni tra Slovacchia e Boemia, agli indipendentismi tradizionali, come quello corso.
Questi sono movimenti contrari per definizione: ogni localismo è per definizione contrario a un globalismo e a tutto ciò da cui esso dipende e comporta. Anche sul piano pratico se localismo vuol dire avere punti di riferimento riconoscibili in uno spazio circoscritto è chiaro che non possono essere battezzati tutti in un mare di Coca Cola usando gli stessi prodotti, altrimenti si ridurrebbe tutto a folklore, recupero dei dialetti, che non è una cosa cattiva, ma non aiuta a risolvere il problema in questione.
Io ho trovato una consapevolezza di che cosa significa un localismo di questo genere solo nell’ultima generazione degli indipendentisti corsi, i quali dicono di volere lo sviluppo, ma a modo loro, secondo l’habitat, la storia, le tradizioni che li contraddistinguono. Accettano anche di non rimanere al passo con l’Europa pur di preservare la loro identità: non ci tengono ad abbandonare il frigorifero per tornare alla ghiacciaia, ma se questo è necessario per rimanere ciò che sono, allora sono pronti a farlo.
Ecco questo è un localismo consapevole dei prezzi che paghi. Teoricamente è questa la soluzione, ma è impossibile perché non ti viene permesso di attuarla. La Corsica, in un modo suo particolare, come isola, è quantomeno riuscita a farlo sotto l’aspetto della salvaguardia ambientale, facendo saltare le case dei francesi e degli italiani. Però, proprio per le piccole dimensioni dei luoghi, qualunque potenza può obbligarti a sottometterti all’andazzo generale. Oltre ai localismi ci sono anche correnti di pensiero americane che lavorano in questo senso: il bioregionalismo, che coniuga localismo e ambientalismo, il comunitarismo. Sono tutte ideologie favorevoli ad un ritorno alla terra a danno dell’industria e più profondamente ad un ritorno alla terra come elemento vivificante ed equilibrante dell’umano.

E l’individuo, per le poche possibilità che possiede, cosa può fare?

Nel mio spettacolo l’unica cosa cui riesco a invitare è ad un recupero di alcuni valori fondanti: la dignità, la lealtà… Sono processi culturali lunghi ma se riusciamo a recuperare queste cose anche la politica non potrà essere quella cosa infame che vediamo adesso. L’unico lavoro che possiamo fare è su noi stessi: non abbiamo altri mezzi, non siamo terroristi né crediamo che il terrorismo risolva la situazione. Anzi, l’unica rivoluzione penso che arriverà quando la gente, stanca del proprio disagio, dovrà porsi qualche domanda. Piano piano poi, se crediamo a quello che stiamo dicendo, questo pensiero di critica al sistema si allargherà anche da altre parti, tra la gente. Anche i redattori dei giornali che hanno quarant’anni già oggi stanno dalla mia parte. La questione è anche generazionale, chi ha sessantanni è legato anche legittimamente a una sua storia e non è in grado di vederne altre. Mi dà un po’ di fiducia anche il fatto che posso esporre il mio pensiero non solo in situazione border-line, ma vengo invitato anche in posti più “normali”.

La stessa cosa non si può dire per la tv pubblica che non ha usato mezze misure per farla fuori…

Però in questo caso non si è trattato di censura vera e propria. La censura ti esclude piano piano, come è successo a me in passato. Negli anni settata ero considerato il miglior giovane talento del giornalismo italiano e, viste le mie idee, mi hanno lentamente confinato in giornali sempre più di margine. Non viene uno e ti dice “Questo pezzo tu non lo scrivi!”, al massimo non ti affidano il pezzo. Chi ti censura non si comporta come si sono comportati con me in Rai, così esplicitamente, mettendo davanti a tutti Marano, che quasi lo salvo, è il don Abbondio della situazione a cui è arrivato l’ordine dall’alto, da Socci e così via. Un tempo si facevano le inchieste e se ciò che scrivevi era documentato raramente avevi dei problemi. Soprattutto negli anni settanta, all’Europeo, se la cosa era certa si pubblicava assumendosi tutte le responsabilità e le conseguenze del gesto. Insomma si accettava che questa o quella pubblicità non desse più i soldi. Oggi il potere economico e politico è diventato molto più pressante, è sparito il valore dell’onestà, gli organi di informazione sono asserviti solo al potere.

La sua critica alla modernità, rispetto anche a molte altre, ha la particolarità di indicare il passato come decisamente preferibile al presente, almeno sotto certi aspetti.

In linea di massima mi servo del passato per demistificare il presente e le sue menzogne, ma certamente sono convinto che un qualche ritorno sia auspicabile. Le correnti di pensiero che mi sono più analoghe sono tutte per un ritorno: graduale, limitato e ragionato a forme di autoproduzione e autoconsumo. Ribadisco: graduale, limitato e ragionato. In questo senso, un po’ provocatoriamente, ma fino a un certo punto, prendo spunto dal mullah Omar, che non rifiutava la modernità totalmente: nella sua stanza della sua villa c’è - è la sua ingenua utopia! - un grande prato attraversato da un’autostrada con sullo sfondo poche, rare, ciminiere… Cosa stava a dire? Che alcune conquiste della tecnologia le accettavano, erano ritenute indispensabili, all’interno però di un prato verde che simboleggia l’armonia, l’Afghanistan prima dei talebani (i quali sono stati mandati dagli americani contro i sovietici, è una questione ideologica), armonia complessiva in cui tu inserisci alcune conquiste della tecnica che possono essere estremamente utili. Ecco, lasciando perdere il mullah Omar, è il discorso di queste correnti di pensiero sia americane sia dell’ambientalismo scandinavo di tipo radicale: per ora sono linee di tendenza, teorie, utopie, però ci sono, e questa è anche la mia. Certo se potessi…direi questo: un ritorno graduale, limitato, ragionato ad altre forme di vita più controllabili, umane… questi li eliminerei uno a uno…(indica il televisore…)

Luca Barachetti
Diego Bonicchio
Marco Giacalone

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