Friday, February 01, 2008

ACCA LARENTIA, UN RICORDO SENZA “SIGLE”
Marcello De Angelis

Cari amici, anzi, camerati. Non mi rivolgo a quelli che ti si avvicinano brandendo il telefonino e ti dicono “a Marce’, ce l’hai il coraggio di farti una foto con noi col saluto romano?”. Mi rivolgo a “quelli che c’erano” e - ognuno secondo la sorte - hanno avuto il coraggio, in un momento o in un altro, di affrontare ben altri rischi. Parlo di tutti quelli che - oggi distribuiti sotto varie sigle o allontanati dalla politica attiva - a un certo punto della loro vita hanno sofferto, sanguinato e pianto, per tenere alta la bandiera che mille altri avevano lasciato nel fango o non avevano il coraggio di abbracciare. Mi riferisco a tempi - è ovvio - in cui non c’era nulla da guadagnare, se non qualche punto di sutura e giorni di carcere e/o ospedale. Sono quelli che hanno portato le croci, ma anche le bare, e hanno perso in prima persona amici, parenti, persone care. Quelli che la sofferenza per quelle perdite la portano dentro e quasi hanno pudore di parlarne, soprattutto quando quei nomi, quei fatti, quel dolore, vengono fatti propri da altre persone, magari solo per farsene portavoce agli occhi del vasto pubblico. Non è bello farsi vanto della propria sofferenza, ma sicuramente lo è ancor meno - essendo stati risparmiati dal dolore della perdita - cercare di farsi vanto o acquisire credito strumentalizzando la sofferenza altrui.

Come si può sopportare che persone che - mentre altri sceglievano la via senza uscita e senza profitto della testimonianza e dell’orgoglio - avevano l’intelligenza di costruirsi il proprio posto nella società che ci combatteva e noi combattevamo, che festeggiava ai party e nelle discoteche mentre noi eravamo in cella, che cercava di soddisfare la propria autostima con i bei vestiti, le amicizie miliardarie o quella dei potenti, possa oggi - e sempre con maggior clamore - farsi portavoce della nostra anima e della nostra memoria?

La peggiore sofferenza che io ricordi era la frustrazione di dover sempre leggere il nostro ritratto scritto da qualcun altro. Ricordate la rabbia, nel leggere gli articoli che parlavano di noi sui quotidiani e sui rotocalchi descrivendoci come noi assolutamente non eravamo? E ancora peggio le interviste - spesso inventate - a nostri “rappresentanti” che davano voce a tutto ciò che i nostri nemici dicevano di noi, corroborando l’immagine che volevano cucirci addosso? E i libri che spiegavano al mondo, con serietà accademica, la nostra satanica ideologia che portava inevitabilmente al genocidio, alla strage, allo stupro? Noi dicevano “no, questi non siamo noi! Noi siamo l’opposto di tutto questo!”. Ma potevamo dircelo solo tra noi, perché chi possedeva il potere di “far sapere le cose” non aveva nessun interesse che si conoscesse l’esistenza della nostra realtà, perché non era funzionale agli equilibri di quel potere che si reggeva su un patto che aveva nell’antifascismo il suo collante e aveva dunque bisogno che, agli occhi di tutti, i fascisti fossero come li ritraeva la Repubblica. E noi non avevamo voce.

E oggi che quell’argine è crollato e definirsi di destra non conduce più alle celle dell’inquisizione o al rigetto sociale, non è accaduto affatto che sia concesso a noi di dire com’è realmente questa destra. Ci pensano sempre comunque gli altri, quelli che prima di destra non erano e quindi avevano il diritto di parlare e che poi, per il rimescolarsi delle carte, non essendo più a sinistra, hanno dovuto ritagliarsi un ruolo che li mantenesse comunque alla ribalta, creando una destra che è a loro immagine e somiglianza, rubandoci la nostra lingua per esprimere l’identità loro, che prima raccontavano invece con le parole dei nostri nemici.

«Quei ragazzi non sono morti per il Ppe» si sente dire. O per dirla con una canzone della Compagnia, non sono morti certo gridando “viva il libero mercato!”. Ma erano anche ragazzi che chiamavano Oriana Fallaci “Oriana Lefeci” e facevano vignette offensive nei suoi confronti. Adesso che grazie ad una operazione mediatica nemmeno tanto sofisticata è lei che è diventata l’ideologo della destra italiana - spazzando via tutti quelli che ci avevano formato dalla fine dell’ottocento fino agli anni Ottanta - ve lo ricordate il perché di tanta antipatia?

Forse perché su di noi - e contro di noi - scriveva esattamente le medesime cose che ha scritto nei suoi ultimi libri, sostituendo appena poche parole (“identità dell’occidente” ad “antifascismo”, “valori della democrazia” a “valori della costituzione”…) e riciclando tutta la sua verve distruttiva spostando la mira con l’aggiunta di sole tre sillabe: “is-la-mo”. Il nemico da distruggere, per tutta la sua vita era stato il “fascista”, negli ultimi mesi della sua esistenza si è trasformato in un più attuale “islamo-fascista”, ma nel suo mirino c’eravamo comunque anche noi. Ma solamente noi, non i suoi amici di allora che nel frattempo si sono proclamati portavoce della destra. Loro sì - e per forza di cose! - di una destra che deve essere anti-fascista, perché si vuole rappresentata in prima persona da gente che è stata sempre ed è coerentemente antifascista. Oggi per loro il nuovo Hitler non è Freda, ma Ahmadinejad, i “nazisti” sono quelli di Hamas e gli “squadristi” sono gli hezbollah. E i “fascisti” sono i mussulmani, salvo quelli che, come accadeva per noi negli anni Settanta, si dichiarano pentiti e scrivono il loro Memorie di un picchiatore fascista per confermare, con l’autorevolezza del correo, tutte le accuse che il tribunale dell’inquisizione sostiene contro i suoi ex-confratelli. Ci siamo già passati, come fate a non comprendere il gioco?

Ma sia, se qualcuno preferisce come proprio “portaparola” chi invece delle cicatrici delle coltellate e delle sprangate ha quelle della chirurgia estetica, è padronissimo di farlo. Chi vuole continuare a fare il militante di base per permettere di restare sulla poltrona a qualcuno che, avendo litigato con quelli con cui andava a braccetto ieri, oggi potrebbe non avercela più garantita, faccia pure. In fin dei conti - per chi ha combattuto davvero - si tratta solo di sigle. Sono liste elettorali, non legioni. “Loghi” creati da studi pubblicitari, non “bandiere di sangue”…

Ma i morti, per favore, non lasciamoglieli sfruttare. Voi che avete pianto a un funerale, ovunque siate oggi collocati, non potete veramente accettare che questo accada. Anche se significa spostare dieci voti sulla vostra lista, o sulla mia, o su quella del terzo vecchio amico che si è fatto una lista per conto suo. Che il sacro resti sacro, l’oro resti oro, non diventi cartamoneta.

Quando nel 1988, nell’anniversario della morte di mio fratello, due gruppi rivali fecero un diverso manifesto commemorativo coprendoselo a vicenda e venendo alle mani in conseguenza della reciproca rivendicazione di proprietà su quel ragazzo morto, decidemmo che fosse più dignitoso, da allora in poi, ricordarlo in privato e in silenzio. Questo non ha impedito, in anni recenti, che qualcuno avesse la trovata di riutilizzare il suo nome in occasione degli anniversari, facendo dei manifesti con addirittura in calce il proprio indirizzo… E a nulla valsero le richieste cortesi di rispettare un nostro familiare, perché il suo primo pensiero fu che noi volessimo “privatizzarlo” per sfruttarlo a fini politici della nostra persona…
Questo è dove siamo arrivati. Per favore, fermiamoci.


Marcello de Angelis

2 comments:

Anonymous said...

Caro Marcello,sono senza parole.
Non sapevo anche tutte quelle cose sulla Fallaci.Mi cambiano molte prospettive...E sono anche un pò confuso

Anonymous said...

come sempre marcello punta al cuore e lo fa senza retorica ma facendo maturare molte cose in.