La Virtù nel pensiero tradizionale.
“Il premio della Virtù è la Virtù stessa. Cioè: la Virtù è un valore in sé stessa, fuor da qualsiasi attrattiva che viene dalla sensibilità, va voluta: in modo puro, assoluto, non umano…” (J. Evola) Badino tutti gli uomini che si ispirano all’immortale flusso della Tradizione a destare in ogni loro atto, azione o parola, quel nobile simbolo di grandezza che gli Italici tutti chiamavano Virtus, conosciuto dagli Elleni come Aretè. Non vi è impulso più grande che possa collegare l’Uomo contemporaneo alla felice età dei Padri che rifulgevano la loro vita al cospetto degli Avi e dei Numi. La Virtus romana ha una semplice etimologia; la radice su cui si fonda tale parola è Vir, l’Uomo, inteso come essere in grado di affermare tramite la Volontà, il proprio Essere. In questo contesto il termine Virtus va associato a Vis, in latino Forza, la grande imperturbabile Potenza dell’Uomo datagli in mano dagli Dei, per rendere gloria a se stesso, alla sua natura, alle sue qualità fisiche e spirituali, alla sua Sacra Etnia. La romanità aveva posto nei secoli come effige della sua stessa gloria il carattere supremo di tale dote; ad essa, sublimata in Dea, venivano costruiti templi e statue, ad essa fu data la pax Augustea, essa fu la consacrazione di Tiberio nelle situazioni di particolare difficoltà, fu il carattere delle legioni romane chiamato in seguito Virtus Exercitus. Gli Elleni avevano radicato la loro areté in ogni contesto dell’etica greca riconoscendo tra tutti gli aristoi, coloro che in ragione delle proprie superiori qualità spirituali avevano il privilegio di sopravvivere nel ricordo di chi restava in vita, lasciando un segno indelebile di sé. Così dalla superiorità della propria virtù scaturiva la genuina gerarchia degli uomini, delle classi, dei popoli. Aiace Telamonio si tolse la vita per rispetto alla sua Virtus ed Ettore lo affrontò per una giornata intera pur volendo dimostrare il suo superiore carattere. Nella battaglia, nello scontro diretto era il privilegio del Vir che si cimentava nell’esperienza del coraggio e della prodezza; nella dimostrazione della sua estrema abilità alla guerra e talvolta nell’accettazione umile del proprio limite naturale. La virtuosa Sparta in guerra assecondava la sua gerarchica struttura sociale, facendo tutti i suoi cittadini homoiotes, ossia Uguali, in modo che ogni cittadino potesse incarnare l’areté aristocratica: tale era il segreto della potenza della sua polis. L’Uomo antico padroneggiando la Virtus, si faceva Eroe Virile. Così la virilità, termine oggi talmente dileggiato da non esser addirittura proponibile grazie al belligerante politicamente corretto, acquisiva tutti quei significati di nobiltà e pregio riconducibili al Mos Maiorum della dorata Roma tradizionale. L’Eroe Virile era per massima eccellenza dunque Uomo della Tradizione. La Modernità ha disconosciuto l’Eccellenza delle sue qualità morali, ha posto fine al dominio della Virtus per annebbiare i suoi sguardi nel Vitium, nell’infelice abbandono ai sensi, nella perdita del dominio di sé, del proprio Essere. Quando l’uomo decise di volgere il proprio sguardo verso il basso, quando decise di aprirsi a ciò che turpe e volgare esisteva sotto di lui, cominciò la fine della sua Apoteosi e l’inizio della Decadenza. Molti di noi per contrastare simbolicamente l’usura dei tempi odierni, hanno ripreso in mano il termine Militia, usandolo a baluardo dell’Idea che tutti ci accomuna. Sia allora la riaffermazione in noi tutti della Virtus romana, come emblema del nostro militare, come incarnazione in noi dell’Ideale tradizionale. Quel che possiamo fare di fronte alla Modernità è rimanere stabili sul nostro virile avamposto, patria che fece gli eroi e li rese immortali.
p.s. Sono sicuro che Blacknights mi perdonerà.
Tuesday, August 14, 2007
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